Un salotto borghese destinato ad implodere, un parquet consumato dal tempo, un quadro appeso alla parete che preannuncia agguati e azzannate alla gola e, al centro, un banco da bar dove bottiglie di superalcolici e bicchieri, rigorosamente di cristallo, la fanno da padrone. Questa la scena con cui si apre “Chi ha paura di Virginia Woolf“ con la regia di Arturo Cirillo, alla sua quarta ripresa al teatro Vascello di Roma.
Gli attori, di rara bravura scenica, indispensabile a reggere un testo come quello di Albee che conta una tradizione interpretativa di grandi mattatori, non lasciano il tempo a paragoni passati né tantomeno a rimpianti. Milvia Marigliano, Arturo Cirillo, Valentina Picello e Edoardo Ribatto meritevoli di essere riusciti a dar vita a personaggi curati fin nei piccoli particolari, tanto da ridare dignità ad un genere di interpretazione realistica che rischia di essere messa da parte per la difficoltà e la fatica interpretativa di scavo che richiede agli attori. Ma qui ognuno di loro sembra calarsi nei panni del suo personaggio con quella naturalezza e semplicità che solo i veri attori sono in grado di fare. Così la Marigliano dà vita ad una credibilissima padrona di casa alcolizzata che scivola, quasi dolcemente, dal dolore al sarcasmo in un costante malinconico barcollamento tra la linea della realtà e dell’immaginazione; accuratissima nel lavoro vocale e dei movimenti la Picello, isterica ospite a cui spetta il non facile compito di scandire i passaggi del climax della storia, ambedue donne vittime di un maschilismo ambizioso e vorace come quello del bravo Edoardo Ribatto e del perfetto, impacciato, e a volte goffo, deus ex machina interpretato da un toccante e delicato Arturo Cirillo.
Sin dalle prime battute, “Che tugurio”, ti senti trascinato in un luogo nuovo, incontaminato, ti pare di non conoscere il dramma che aleggia nell’aria, di non aver mai letto il testo o visto film tratti dalla piece. Lo spettatore viene calamitato in quel salotto da una forza quasi irresistibile. Lì andranno in scena disperazione, violenza, lotte e disfatte nell’ambiguo perbenismo di un ambiente accademico dell’America degli anni sessanta che non si discosta affatto da tanta nostra quotidianità macchiata di piccoli crimini.
Equilibratissima e di grande tensione tra realismo e astrattismo la regia di Cirillo, accorto nell’aver sempre tenuto i toni degli alterchi ad un livello medio alto, mai un vero e proprio urlo se non quello che invoca la commovente isterìa della Valentina Picello: “Violenza, violenza” quasi anelando alla lacerazione del velo di menzogne che soffoca le due coppie.
Un sottile e lento carnage teatrale a grande tensione emotiva condotto dalla mano abile e dolorosamente sadica, quasi spinta da un ineluttabile destino umano di sofferenza, quello che mette in atto il padrone di casa che, attraverso la somministrazione di alcool dosato a regola d’arte, spinge i protagonisti e sé a scarnificazioni e smascheramenti che denudano le mediocri e fragili verità di tutti.
Alla fine, nulla resta sul palco se non la consapevolezza della sofferenza dell’uomo: i volti come icone di stupefatto dolore.
Ma secondo ogni catarsi che si rispetti, quando il teatro è con la T maiuscola, nel pubblico resta la gioia e il piacere di aver assistito ad un evento, e te ne vai con la sensazione di aver visto la miracolosa – ahimè ormai rarissima – alchemica sintesi di un intramontabile testo e di una splendida interpretazione.
E hai voglia di tornare a teatro. Incredibile ma vero!
Fulvia Galli della Loggia