Quattro chiacchiere con Gabriele Mainetti per parlare di un supereroe nostrano e del suo modo di fare cinema.
Da dove viene la tua fascinazione per la maschera.
Il soggetto di “Lo chiamavano Jeeg Robot” è stato scritto da me, da Guaglianone e Menotti, uno splendido fumettista. Conosco Nicola Guaglianone da un lungo periodo, io volevo scrivere ma anche fare l’attore. Abbiamo iniziato a collaborare attraverso i cortometraggi, io facevo l’editor e lui scriveva. Vengo dalla generazione che è cresciuta con “Bim, bum, bam, l’elemento maschera l’abbiamo inserito come tematica forte. Ma la maschera ha assunto nel tempo una connotazione diversa, in “Basette” identificaun sogno, c’è il mito che si spegne, in “Tiger boy” la maschera è il simbolo della vergogna, infatti grazie all’uomo tigre il ragazzo trova se stesso. In Jeeg, il mio primo lungometraggio, Enzo Ceccotti, il protagonista, un uomo spento, attraverso la maschera trova i colori che sono nella vita. In genere nei film dei supereroi, la maschera, è un omaggio al cinema di genere e spesso risulta gommosa. La riuscita di questo film dipende molto dai miei collaboratori. Mi contorno in genere di persone con cui ho un feeling. Amo chiamarli un piccolo esercito pronto ad aiutarmi in ogni circostanza.
Hai mai pensato di miscelare il cartoon con il live action.
Si ci ho pensato o meglio nel film c’era una sequenza di questo tipo che abbiamo deciso di eliminare per questioni di budget. Purtroppo in un film bisogna fare molta attenzione a non sforare il budget per problemi di produzione.
Pensi che il senso di responsabilità e il bene vadano di pari passo, è questo che muove il protagonista.
Per Enzo la responsabilità doveva essere una cosa spontanea, ne abbiamo discusso a lungo con l’attore Claudio Santamaria, non volevamo che fosse frutto di un senso di colpa. Il protagonista aiuta perchè ha voglia di farlo. Nella scena in cui corre e la polizia lo riconosce e lo insegue, nel momento in cui la macchina è in fiamme con la bambina intrappolata, lui istintivamente la salva. Il ringraziamento della madre e l’abbraccio da colore alla sua vita. E’ Alessia che lo risveglia e fa riemergere il buono che è dentro di lui con la sua purezza.
Stiamo vedendo una tendenza in cui i supereroi come Deadpool, Lupin 2 e Jeeg Robot sono un po’ cialtroni pensi che sia un modo per fuggire all’omologazione.
Non amo l’omologazione, ogni volta che mi accosto a un lavoro voglio che ci sia del nuovo anche per giusticare la spesa del biglietto da parte del pubblico.
Perché hai legato il film a un contesto romano e a Tor Bella Monaca.
In realtà la mia scelta è stata ben precisa, conoscevo Tor Bella Monaca perché li ho fatto teatro e poi spesso ci incontravo Nicola Guaglianone che ci ha fatto il servizio militare. Era un quartiere a me familiare che conoscevo bene.
Ti va di dirmi qualcosa dell’estetica del film e se hai dei registi di riferimento.
Se per estetica intendi avere una forma e uno stile riconoscibile non mi interessa, non mi preoccupo della forma ma di quello che racconto, è la storia che mi appassiona. Da giovanissimo avevo il mito di Tarantino ed è questo che mi ha portato a scegliere il cinema. Ho studiato cinema al Dams di Bologna e poi per fare il regista ho studiato con Leo Benvenuto che è stato il mio maestro. Ho fatto anche l’attore ma i miei studi andavano verso la regia. A soli 19 anni ho scritto il mio primo corto, purtroppo non l’ho mai prodotto “Sesso, hamburger e diamanti” scritto con Guaglianone. Ho attraversato due passaggi della mia vita, l’attore, lo sceneggiatore, ma il vero amore è la regia. Non ho autori di riferimento, amavo il cinema di Spielberg e Monicelli perché mi ricordano momenti felici vissuti con mio padre.
Come sei riuscito a coniugare una serie nipponica con il dialogo capitolino.
L’immagine nipponico anni 80′ pop giapponese la trovi solo in” Basette”,in Jeeg trovi la dissociazione del bene e il male del protagonista e il mondo cartonato. E’ così che tutto viene declinato, spero, in un mix irresistibile per gli spettatori.
Ringrazio Gabriele Mainetti per la generosità e noi di dreamingcinema gli auguriamo di realizzare altri film così entusiasmanti.
Adele de Blasi