Peter Greenaway ha scoperto i film di Sergei Mikhailovich Eisenstein per caso, quando aveva appena diciassette anni. Quello che lo ammaliò del grande cineasta russo furono gli obiettivi alti e un’intelligenza cinematografica veloce e consapevole, nonché una sorprendente brutalità dell’azione unita a un’attrazione verso la violenza in sé. Inoltre, i suoi lavori abbracciavano un uso della metafora e delle associazioni per immagini che non lo rendevano schiavo di una narrazione prosaica e degli scrittori, ma che gli permettevano di esprimere grandi idee sostenute consapevolmente in un flusso inarrestabile di fotogrammi.
In “Eisenstein in Messico”, Greenaway ha voluto riproporre la lezione del grande maestro: la settima arte è un mezzo espressivo a sé stante, ricco di strumenti e tecniche uniche, che non ha bisogno di rendere in immagini i modelli espressivi tipici della letteratura. Purtroppo il regista inglese non è riuscito nel suo intento ma, proprio per questo, ha creato qualcosa di straordinario. Infatti, in questo suo ultimo lavoro, il cinema non lascia indietro la sceneggiatura: riesce invece ad esaltarla e ad esserne, al contempo, potenziato.
Con uno stile visionario e irriverente Greenaway firma un ritratto originale di Eisenstein, legandolo a una riflessione sul cinema, sul sesso e sulla morte che sconvolge e affascina. Nel rappresentare l’esperienza nel profondo Messico di Sergei, però, non si accontenta di un affresco. Il suo vero scopo, realizzato in pieno, è quello di imprimere su pellicola l’anima stessa del regista russo e dei suoi capolavori. Rubando al suo idolo tecniche visive e citazioni, scelte stilistiche e teorie, ricreando e rinnovando ambientazioni e suggestioni di molti dei suoi lungometraggi, questo film proietta lo spettatore nel cuore stesso dell’universo eisensteiniano, aprendo inoltre la strada alla comprensione delle passioni dell’uomo che spesso rimangono nascoste dietro alla maschera del mito.
Elmer Bäck, attore teatrale finlandese al suo primo film come protagonista, regala un’interpretazione magistrale ed emozionante, riuscendo a esprimere tanto passioni conturbanti quanto sentimenti drammatici, con naturalezza davvero inimitabile. Nel confronto con questa performance fuori dal comune, Luis Alberti, nonostante non raggiunga vette così alte, non si lascia sminuire.
La voce fuori campo del protagonista ricorda che quelli rappresentati “sono i dieci giorni che sconvolsero Eisenstein”. Ebbene, questi sono i 105 minuti che sconvolgeranno il pubblico.
Micol Koch