Oggi dreamingcinema ha incontrato la regista Arantxa Echevarria. Due premi Goya come migliore sceneggiatura e migliore regia, Carmen y Lola è il suo primo lungometraggio, in concorso alla Quinzaine des Réalisateurs (Festival di Cannes). La regista è una documentarista già molto apprezzata. In questa sua opera prima Arantxa segue lo sbocciare di un amore tra due ragazze gitane, un amore omosessuale osteggiato dalla comunità rom che lo considera e lo vede come una forma di abominio. Non vogliamo fare spoiler di un film pieno di grazia e romanticismo che vale la pena di essere visto per le emozioni che sa regalarci.
Una storia forte e drammatica ma allo stesso tempo romantica, ambientata in una comunità rom. Come hai fatto a calarti così dentro ai loro costumi?
Non è stato per niente facile. Ho impiegato ben sei anni prima di arrivare a girare il film. I gitani sono una popolazione con grandi riti arcaici e tradizioni, è stato complesso ottenere la loro fiducia. Nel mio film non ci sono attori professionisti, sono tutti rom. Sono rimasta affascinata dal loro mondo e ispirata dal fatto che un amore tra gitani, omosessuale, sarebbe stato davvero inconsueto, ma ci è voluto molto tempo prima che potessero accettare l’idea e darmi fiducia. Nel loro mondo, infatti, l’omosessualità è considerata una cosa sporca. I gitani sono una popolazione con grandi valori e riti, profondamente religiosi.
Il film viaggia su due binari: la storia d’amore e la parte documentaristica. Come sei riuscita ad amalgamare questi due aspetti creando un mix magico?
Sono stata a lungo con loro, volevo comprendere ogni aspetto della loro vita e quotidianità, ma allo stesso tempo volevo cogliere il sentimento che nasce tra le due ragazze, un primo amore fatto di emozioni, di sguardi, di mani che si sfiorano, di condivisione. Ho trascorso molto tempo nella comunità gitana per avere la loro piena approvazione e fiducia, volevo che si rendessero conto che non c’era niente di sessuale o di erotico che volevo girare, volevo solo catturare con la macchina da presa la magia dell’amore, il sentimento che può arrivare in maniera inaspettato.
Che reazioni ci sono state dalle comunità zingare?
In tutte le cose ci sono sempre elogi, ma anche cattiverie. Alcuni hanno visto nel film la bellezza e la purezza del sentimento, altri lo hanno trovato aberrante perchè ritengono che l’omosessualità sia qualcosa di cui non si deve assolutamente parlare.
Come hai scelto le due protagoniste che sono due zingare?
E’ stato difficilissimo trovare le protagoniste, ci sono voluti sei mesi di casting e più di 600 ragazze a cui abbiamo fatto il provino. Per i ruoli secondari e le comparse ho utilizzato 1200 gitani, un numero enorme se consideriamo che ho usato 1/4 della popolazione rom. La cosa più difficile è stata convincere le due ragazze a baciarsi dal momento che per loro era molto peccaminoso. Carmen dopo ogni bacio sputava per terra e mi ha raccontato che aveva un cugino omosessuale che faceva lo stesso e che lei non vedeva più da tempo. La cosa più bella è stata che alla fine delle riprese Carmen è riuscita a perdonare suo cugino e ha capito che non c’è vergogna nell’amore.
Nel tuo film si dà grande importanza e attenzione ai dettagli, perchè?
Sì, è vero. Mi soffermo molto con la macchina da presa sui monili, bracciali, orecchini che fanno parte delle comunità gipsy, ma anche sul pacchetto delle sigarette; in quel gesto di fumare insieme una sigaretta c’è condivisione qualcosa che avverrà nel loro mondo, le mani che si sfiorano, il pacchetto che passa da una mano all’altra, ci sono anche i ricordi dei momenti della nostra vita amorosa, che tutti noi abbiamo vissuto e che rimarranno impressi nella nostra testa. Ci siamo avvalsi di una luce naturalistica per entrare a pieno nei personaggi perché volevo che lo spettatore fosse dentro di loro e sentisse appieno le loro emozioni.
Due premi Goya e che cosa farai in futuro?
Spero di non impiegare altri sei anni prima di fare un altro film – mi dice ridendo – ma di sicuro parlerò ancora di donne, di sentimenti.
Adele de Blasi