La storia narrata, che David Ayer porta sullo schermo con “Fury”, inizia quando la guerra è conclusa agli occhi del mondo ma è più che mai viva agli sguardi dei soldati che devono ancora debellare gli ultimi residui di resistenza disperata da parte dei nazisti, che in comune hanno l’essere tutti ignari o noncuranti del fatto che la Storia, quella con la “S” maiuscola, ha già fatto il proprio ri/-corso.
Accade dunque che l’avanzata solitaria di “Fury” – nome dato al carrarmato capitanato dal sergente “Wardaddy”, interpretato da un Brad Pitt che dà al suo personaggio i toni inquietantemente pacati di un uomo segnato da qualcosa di non ben definito né tantomeno definibile – sia descritta tramite la claustrofobia della vita al suo interno – dove cinque uomini combattono a vuoto per una sorte che è già stata definita – e nell’ancor più angusta messa in scena degli spazi esterni che ospitano il lento incedere del cingolato – complice una raffinatissima fotografia che riprende spesso le figure in controluce o comunque avvolte da nebbie e fuliggini diegetiche ma al contempo quasi oniriche, mantenendo la medesima atmosfera anche nei pochi interni -. L’elemento religioso, spesso inserito con la reiterata recita del “Padre Nostro” o con citazioni di versetti del Vangelo, diventa una presenza forte quanto necessaria, dal momento in cui stabilire un rapporto umano, e specialmente amoroso, non è cosa che la Natura della guerra può contemplare – si veda l’incontro sbrigativamente tragico tra Norman ed Emma -.
E se gran parte del narrato è ambientato in giornate cineree nelle quali il tempo e lo spazio appaiono piatti allo stesso modo, l’oscurità che avvolge il contesto della battaglia finale mette in risalto i colori caldi del fuoco e del sangue – alcune tonalità richiamano abbastanza esplicitamente “Apocalypse now” – rendendo “Fury” un piccolo gioiello che, al pari dell’”American sniper” di Eastwood – film che la critica italiana ha additato, come del resto aveva fatto anni fa con “Arancia meccanica” e “Full metal jacket”, come film di destra, definizione di cui si fa seriamente fatica a capirne il significato – potrebbe gettare delle solide basi per l’avvento di una “Nuova New Hollywood”.
Carlo Cerofolini